BIENNALE DI VENEZIA 2015 

(56esima edizione)

ALL THE WORLD'S FUTURES

LA VERNICE

 

di Anna Maria Santoro




  Leggera si posa sull'acqua. A camminarci dentro, Venezia addomestica la mente e la adatta a un conforto che nella culla dei sogni respinge l'insidia dei pensieri troppo esigui. In una recita che si rinnova dalla prima esposizione del 1895, il rito della Biennale si trasforma in festa.






All the world's Futures l'ha titolata il curatore di quest'anno Okwui Enwezor. Non è un tema ma un'idea, che all'Arsenale, ai Giardini, tra le calli e i campielli si manifesta nelle tre categorie del tempo, del suono e del disordine, evocando la Teoria delle attrazioni del montaggio filmico di Sergej Ejzenstejn, dove il pubblico è costretto a interpretare una realtà di immagini e di azioni mostrata solo in parte.




Nella Venezia di Thomas Mann, metà fiaba e metà trappola, il vaporetto dondola. Le bolle d'acqua affiorano in superficie. Il salvagente sulla poppa è strangolato dalle funi: capacità 12 persone; modello brevettato. 


Marta, Redentore, Marco e Zaccaria; le stazioni galleggianti sembra inducano a recitare una litania. Cigolano, insieme al garrito dei gabbiani.


Di fronte all'ingresso dell'Arsenale c'è la mostra L'Infinito Nulla della regione cinese di Macao, ma qualcuno con uno spray ha scritto accanto "Il vero degrado è lavorare tutta la vita".


La prima sala accoglie al buio: i neon testuali, realizzati da Bruce Nauman tra il 1972 e il 1980 con le parole Hate, Love, Pain, Knows doesn't know s'illuminano e si spengono; rimane sempre accesa soltanto War. 



Accanto, Adel Abdessemed ha piantato un'infinità di coltelli al suolo; sembrano mazzi di fiori freschi.



 Un video documenta l'azione dello stesso artista, mentre scrive su una tela che ha fissato sulla volta: lettera dopo lettera a colpi di pennello, facendosi lanciare ripetutamente in alto, da un tappeto elastico. Sembra pazzia allo stato puro ma la Biennale, che ha bisogno di decodifiche, la si può visitare anche ignorando gli intenti dei curatori e sospendendo ogni giudizio politico o di mercato, per osservare capacità diverse di visioni del mondo, o per essere adulati dagli effetti della sola ricerca estetica.

L'odore del legno ricorda il XXI canto dell'Inferno, "Quale nell'Arzanà de' Viniziani / bolle l'inverno la tenace pece/ a rimpalmare i legni lor mal sani".


Il baccano dell'opera di Qiu Zhijie, che s'ispira alla Festa delle lanterne di Shangyuan, costringe ad una sosta.

Si cerca un varco tra flash e cavalletti di fotografi che osservano; mettono a fuoco. Scattano. Ma dopo i buoquet impossibili di Taryn Simon, con i fiori provenienti dall'asta di Aalsmeer in Olanda che non potrebbero fiorire simultaneamente se non ad opera dell'uomo che forza la natura, e le tele scarabocchiate dai bambini sui banchi delle scuole della Colombia, della Turchia, Germania e Brasile raccolte da Murillo, il frastuono ricomincia.

Tra le opere, le voci dei performer rimbombano e s'inseguono, e obbligano gli osservatori, come cacciatori nomadi, a cercare il proprio senso di equilibrio, e a trovarlo nell'attrazione della sala buia di Ashes: è il video di Steve McQueen con un giovane delle isole Grenadine filmato su una barca. La sua anima chiede esperienza e vita. Sprigiona bellezza e forza da far invidia; si vorrebbe assomigliare a lui ma poi, sul retro, lo stesso schermo mostra la costruzione della sua tomba, con la pretesa della memoria che non tralascia il pallore delle cose morte. Si legge che è stato ucciso.





Prendendo a pretesto l'afa, s'indugia, nella certezza di voler riflettere sulla precarietà.

Tra le note di un'orchestra jazz che strappa applausi di continuo, l'impatto con la guerra risulta lacerante in Bell, la campana di Hiwa K costruita con residui bellici iracheni, e The Knowledge Throne, il trono della conoscenza che Gonçalo Mabunda ha realizzato con le munizioni delle lotte in Mozambico.

Gli uomini si macellano tra loro, accomunando pretesti di ateismo e religione.


Al padiglione della Santa Sede alle Sale d'Armi, svetta la scritta "In Principio la Parola si fece Carne", dal prologo del Vangelo di Giovanni in una dimensione verticale-trascendente del Logos e orizzontale-immanente della carne.




All'esterno c'è l'odore della salsedine. 

"A Venezia s'impara a vedere e ad ascoltare l'invisibile e l'inaudibile", scriveva Luigi Nono.


Si prosegue, restando avvolti dal vapore delle vasche piene d'acqua dell'artista taiwanese Vincent J.F Huang.


Al di là delle Gaggiandre con The Phoenix che custodisce il sogno dell'immortalità, galleggia sul canale la barchetta di Vik Muniz, costruita come quelle dei bambini delle scuole elementari, e serigrafata con il foglio di un giornale del 4 ottobre del 2013 titolato "Lampedusa. Migranti, centinaia di morti".



Mikhael Subotzky siede a terra, come a mettersi dalla parte degli emarginati di Johannesburg filmati nelle sue opere.



Accanto ai palloni da calcio coperti interamente con le pagine della Bibbia dell'artista Samson Kambalu, un gruppo di cinquantenni scherza: "non è scritto niente in italiano! Da domani si comincia a studiare inglese!"



Il padiglione Italia è alle Tese, curato da Vincenzo Trione sugli archivi della memoria; risuona la voce di un'intervista a Umberto Eco: "Io, il giorno della mia morte, ricorderò tutto".




Anche l'uscita è trasformata in opera: pareti strapiombanti costruite con la juta da Mahama. Sembra un canyon, il luogo prediletto dai negromanti.



Quando si gira a Ramo de la Tana per dirigersi ai Giardini, a Corte Nova si passa sotto ai fili dei panni, stesi ad asciugare; sembra un'installazione.

Nel possedere gli spazi della vita quotidiana mescolati all'arte, ci si ferma a riflettere sul senso del mercato, consumando l'utopia di un valore intrinseco per conservare l'idea di un valore espositivo.



Lungo i viali dei Giardini, nove grandi sculture scandiscono gli spazi come i grani di un rosario, metafora dell'uomo che distrugge la libertà. Ai tigli sono abbracciate sagome nere come fantasmi.

Nella sala con le sculture di Huma Bhabha, un'intera scolaresca siede a terra. La maestra spiega la Biennale: i vetri infranti nel padiglione dei Paesi Nordici; i fili rossi che colmano gli spazi delle tre sale del Giappone; gli alberi che camminano e fanno perdere l'orientamento uscendo dal Padiglione della Francia; la lettura del Capitale di Marx nel padiglione centrale; i pesanti cedri di metallo collocati nel Giardino della Marinaressa; la stanza di vetro, lungo la Riva dei Sette Martiri, di un'Ucraina trasparente e nuova che si apre al mondo; l'Iceberg di acciaio che dondola sul Canal Grande, dell'italo-albanese Helidon Xhixha della Repubblica Araba Siriana; e l'opera di Christian Büchel che ha trasformato in moschea l'antica chiesa di Santa Maria della Misericordia.



Vengono in mente le proteste di de Chirico e la sua Antibiennale nel 1950, e le contestazioni del 1968 con gli artisti che occupano San Marco, ed Emilio Vedova, veneziano che allora aveva 49 anni, correre coi pantaloni alla zompafosso e indicare, ai pittori romani manifestanti, le calli e i campielli dove scappare per evitare la carica della polizia.



Pubblicato sul mensile Il Borghese, numero di Luglio 2015

Venezia, maggio 2015, ph Anna Maria Santoro e Vincenzo D'Onofrio   ©


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