Escher

 Palazzo Reale, Milano 

dal 24 giugno 2016 al 22 gennaio 2017 

a cura di Marco Bussagli e Federico Giudiceandrea


Articolo di Anna Maria Santoro



 Il racconto dell'arte si fa strada, a Milano, tra la folla, nelle piazze e nei palazzi. E per le vie della città, accanto a qualche scena di violenza malcelata, alle stelle di Natale e alle luci dei negozi, s'incrocia con lo sguardo il manifesto Mano con sfera riflettente: è il simbolo della mostra di Escher a Palazzo Reale curata da Marco Bussagli e Federico Giudiceandrea. L'immagine ritrae una litografia prodotta dall'artista nel 1935: una sfera che riflette il suo ritratto, mentre è seduto nel suo studio situato in una palazzina a Roma in via Poerio numero 122 nel quartiere Monteverde, dove vive per qualche anno dal 1927, e qui descritto nei minimi dettagli. Al centro del disegno c'è il suo volto, mentre in basso è tratteggiata la sua mano sinistra che riflessa sulla sfera diventa la sua destra. Osservato con attenzione, quel manifesto consegna l'uomo a una scarsa lucidità di comprensione ragionata, ficcandolo in vicoli d'intuizioni forse ignorati e prima sconosciuti.



Si accede alla mostra salendo un'ampia gradinata interamente ricoperta da un tappeto rosso simbolo di potere e di regalità. La biglietteria, subito dopo, diviene una specie di frontiera, oltrepassata la quale, ognuno inventa e indovina con la propria fantasia quei paradossi di Escher dove il linguaggio dell'arte serve a capire una natura filosofica e matematica, richiamando alla memoria il pensiero dell'antica Grecia, coi paradossi di un tempo e di uno spazio dimostrati inesistenti.

Nato in Olanda nel 1898, Escher è figlio di un ingegnere. Viene bocciato all'ultimo anno del liceo, e nel 1922 giunge in Italia. Ci abita 14 anni. La ama profondamente e la percorre dalla costiera amalfitana alla Maremma, spesso a piedi, deviando sull'Adriatico: sulle coste del Gargano, della Calabria e in Sicilia.

Espone per la prima volta a Siena, nel 1923. Poi comincia a viaggiare verso l'Europa: Madrid, Toledo e poi Granada, dove rimane affascinato dagli ornamenti geometrici del palazzo dell'Alhambra.

Nel 1935 si trasferisce in Svizzera: "In Svizzera ... rispetto a ciò che avevo visto nel Sud Italia, ho trovato molto meno interessanti sia i paesaggi che l’architettura. Così, ho sentito sempre più di dovermi allontanare dall’illustrazione ... diretta e realistica". E' per questo che all'inizio della mostra ci s'imbatte nelle opere, le prime, che ritraggono quei piccoli paesi dell'Appennino situati in Abruzzo e nel senese ma poi, nelle sale successive, tutto muta improvvisamente: dai disegni dei paesi si passa alle arabesche dell'Alhambra, riprese su mattonelle per pavimenti per poi infilarsi, gradualmente, in un percorso d'installazioni interattive che trasformano il museo in un gioco d'illusioni ottiche.


La mostra tenta di realizzare concretamente alcuni aspetti delle opere impossibili di Escher. Così, c'è il famoso Belvedere, la litografia del 1958, che ritrae l'improbabile palazzo coi pilastri posteriori che ne sorreggono il lato anteriore e con un ragazzo con il cubo impossibile di Necker tra le mani, e c'è, appoggiato su una panca, quel cubo impossibile qui costruito con uno stratagemma: con liste di legno bianco che si uniscono tutte sbilenche senza formare, nei punti di contatto, angoli retti; così lo spettatore si cimenta a girarlo e rigirarlo su se stesso per darne, almeno da lontano, l'illusione perfetta dell'immagine di un cubo, sebbene non lo sia. E' difficile. E nessuno ci riesce.



Si prosegue, lungo le stanze, tra superfici riflettenti e spazi concavi che sembrano convessi, facendo pensare logico ciò che invece è irrazionale.

S'incontra, lungo il percorso, Salita e discesa del 1960 con le scale che Escher riprende dal matematico Penrose: esse mutano direzione nello scendere e nel salire, per tornare al punto di partenza in un giro che non ha fine.

E poi c'è Metamorfosi II, del 1940, in cui scorrendo da sinistra a destra, si passa da un disegno di quadrati a quello di alcuni esagoni trasformati prima in api poi in pesci e poi in uccelli, che si nascondono per poi riemergere in successioni di visioni alterne tra figura e sfondo.

Con Escher, la matematica e la geometria platonica ambiscono a presentarsi, sui fogli bidimensionali, come figure piane e poi solide, per arrivare ai paradossi dell'opera titolata Galleria di stampe del 1956: sono immagini dentro le immagini che l'artista riprende dal famoso Effetto Droste, il nome mutuato dalla scatola della cioccolata Droste che ritraeva una figura contenente, all'interno, una versione ridotta della stessa immagine, che a sua volta ne conteneva un'altra più piccola e così via. Il visitatore che si ferma di fronte all'opera diventa egli stesso opera d'arte, perché ripreso, alle spalle, da una telecamera che lo colloca all'interno di quel quadro infinite volte.



Vengono incontro, lungo il percorso espositivo, Giorno e notte del 1938 e Sole e Luna del 1948, coi cigni bianchi e neri che si accostano compenetrandosi senza fine in un continuo divenire che si affianca ad un'idea di vita e morte.

C'è anche il Vincolo d'unione del 1956, disegnato da Escher riprendendo come modello il nastro di Moebius. Moebius è il matematico tedesco inventore nel 1858 della forma a nastro descritto nel suo trattato sui poliedri con una sola faccia e un solo bordo, che mette in evidenza il concetto dell'infinito, e che nel quadro rimanda all'unione dell'amore senza inizio e senza fine tra un uomo e una donna, perché, scrive Escher, "Esaminando gli enigmi che ci circondano … sono arrivato nel campo della matematica e mi sembra spesso di avere più in comune coi matematici, che con gli artisti".


Milano, dicembre 2016/gennaio 2017, ph Anna Maria Santoro (ad eccezione della "Mano con sfera riflettente" tratta dal manifesto)  


Make a free website with Yola