Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione

L'opera grafica

Museo del Paesaggio, Verbania 

dal 13 giugno al 3 ottobre 2021 

a cura di Elena Pontiggia e Federica Rabai 



Articolo di Anna Maria Santoro



 E’ un dono il Lago Maggiore, che ogni giorno ripete la sua tempra di “Paradiso dei poeti”. Frequentato da Stendhal, Byron e Dickens, nel 1895 Fogazzaro vi ambienta l’epilogo di “Piccolo mondo antico”, e nel 1929 Hemingway vi colloca un susseguirsi di felicità e di dolore che nelle pagine finali del suo romanzo “Addio alle armi” si dispiega: “Avevamo scelto Pallanza, il Lago Maggiore – scriveva - così bello quando cadono le foglie”.
Il suo specchio d’acqua è incastonato tra un lembo della Svizzera e l’Italia, e contiene agglomerati di piccole isole, e parchi con azalee, magnolie e rose che cedono alla vista e all’olfatto colori e profumi di fioriture che rafforzano credenze e possibilità espressive. La straordinaria sua bellezza è visibile dall’alto del Mottarone, detto anche la “montagna dei due laghi” perché si trova tra il Lago Maggiore e il Lago D’Orta, ma è affiancata, oggi, da un silenzio che doloroso evoca la memoria delle quattordici anime che di recente lì si sono tragicamente e per sempre addormentate.

Di fronte al Mottarone, nel piccolo abitato di Pallanza a Verbania che si affaccia sulla sponda occidentale del lago, c’è il “Museo del Paesaggio”: la sua sede è a Palazzo Viani Dugnani risalente alla seconda metà del Milleseicento. L’attuale denominazione, di “Museo del Paesaggio”, è stata assunta nel 1914, anno del suo trasferimento da altre sedi, ma all’atto della sua istituzione nel 1909, ad opera di Antonio Massara, era “Museo Storico Artistico del Verbano e delle Valli adiacenti”. Oggi contiene affreschi e dipinti di autori per lo più lombardi e piemontesi, e sculture di Paolo Troubetzkoy, Giulio Branca e Arturo Martini ma anche una sezione di grafiche, di reperti archeologici provenienti da Ornavasso e una collezione fotografica. Col termine paesaggio, dunque, ci si vuol riferire non solo al panorama naturale ma anche all’aspetto “intimo e profondo - come scriveva lo stesso Massara - della visibile scena del mondo” che muta di continuo, come l’uomo e la sua natura. Ed è in tale prospettiva che il museo di Verbania accoglie, fino al 3 ottobre 2021, la mostra “Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione. L’opera grafica”.

Di Carlo Carrà sono esposte le acqueforti eseguite dal 1922 al 1929 e le litografie realizzate dal 1944 al 1964; di Arturo Martini, invece, fatta salva qualche eccezione degli anni Venti, sono presenti opere grafiche del periodo tra il 1930 e il 1946, affiancate da dieci sculture e tre tele.


Il titolo della mostra rimanda alla sfera dell’inconscio: Le visioni e le invenzioni, anche quelle più incomprensibili, nascondono paure o desideri, sempre. E allorquando si parla dei miti, la mente indaga, e si apre a spazi di giochi e fate e ad antichi eroi greci e romani. Ma affidandoci all’etimologia del μύθος, che rimanda al suono di un muggito e dunque al lemma e ai discorsi e alle leggende che all’origine servivano a dare spiegazioni ai fenomeni naturali, il titolo si slega in parte dai personaggi eroici per connettersi, anche, alle “immagini di sublimi realtà naturali” – come scriveva lo stesso Carrà a proposito di Belgirate, il piccolo paese sul Lago Maggiore a poca distanza da Verbania, di cui nel 1922 disegna le case, oggi in mostra in acquaforte; perché Carrà dal 1922 cerca una “svolta nella contemplazione”: dopo un inizio di carriera che lo aveva visto decoratore a quattordici anni, e poi aderente alle idee del Futurismo, del Cubismo e della Metafisica, il 1922 è l’anno in cui gli nasce il primo figlio Massimo; è l’anno in cui partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia dove espone due tele, “I Dioscuri” e “La casa dell’amore”, le cui grafiche corrispondenti sono oggi a Verbania; è l’anno in cui nella sua piccola casa a Milano in Via Vivaio numero 16 invita spesso i suoi amici: poeti e scrittori tra cui Ungaretti, Cardarelli, Campana e Bontempelli; ed è anche l’anno in cui Giuseppe Guidi apre un laboratorio calcografico in Via Vivaio 16. Nel 1922 inizia quindi, con la grafica, un sistematico ripensamento della pittura, che lo indurrà a reinterpretare i suoi maggiori capolavori.



Nel 1964, all’età di ottantatré anni, dunque due anni prima della morte che lo vedrà tumulato nel 1966 nel Cimitero Monumentale di Milano con accanto il busto che Giacomo Manzù allora trentaquattrenne gli aveva fatto nel 1942 nel suo studio a quell’epoca in Via Sandro Sandri 2 a Milano, Carlo Carrà così scrive: “Torna nella mia pittura il numero, cioè la divisione armonica degli spazi e dei piani. […] Tutto ciò naturalmente al fine poetico del dipinto”.

Analogamente, come discorso poetico, si muove il disegno di Arturo Martini: “Per Martini tutto è mito – scrive Elena Pontiggia, che insieme a Federica Rabai, direttore artistico del museo, è curatrice della mostra – Perché solo il mito esprime il mistero delle cose. E tutte le cose, se pensate nel loro mistero, acquistano una dimensione mitica”.



Quando nel 1924 Martini comincia a dedicarsi alla grafica, è all’apice del successo come scultore. Nel 1942, comincerà a considerare la scultura come un fatto astratto e tre anni dopo, nel 1945, stamperà a proprie spese “Scultura lingua morta”. Così si legge in una lettera alla moglie Brigida: “Di scultura non ne potevo più. Forse dipingerò sempre, anche se questo mi porterà, come un tempo, alla miseria”, ma non sarà così; così Savinio definirà i suoi quadri: “rapidi, poetici, geniali”.




Le foto pubblicate in questa pagina (72 dpi) sono state tratte dalla cartella stampa dell'Ufficio Stampa. 

Nell'ordine:

© Arturo Martini, La siesta, 1946, olio su cartone, cm 58x48,3

© Carlo Carrà, Gli amanti, 1927, acquaforte–acquatinta su rame, cm24,7x33,9

© Carlo Carrà, Il poeta folle, 1916-1949, litografia su zinco, cm 35,5x25

© Arturo Martini, L’attesa, 1935, pirografia su linoleum o celluloide, cm 17,5x15,3 su carta di cm 35x25


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