BREVE RACCONTO

SEMPLICEMENTE UNA VITA


di Anna Maria Santoro

Ottobre 2008


Classe 1919, era nato in Abruzzo in una contrada di quattro anime: un luogo con una manciata di case sparpagliate e un forno, dove si faceva il pane per la gente di campagna.

La Seconda Guerra Mondiale quel posto lo aveva ridotto alla fame: una miseria indicibile per i bombardamenti serrati che avevano raso al suolo le poche e già povere abitazioni dei contadini.

Anche lui era partito militare per il Secondo Conflitto: lo avevano mandato a combattere lungo la Linea Gustav, vicino a Cassino, ma di quei settecento giorni di servizio reso per la Patria, non era mai riuscito a parlare; e quando un giorno, a tavola, gli avevano chiesto <papà, ci racconti qualcosa della guerra?> il rigatone che si stava ficcando in bocca gli cadde dalla forchetta macchiando di sugo la tovaglia, come il sangue di una fucilata che si allarga su una camicia bianca tra gli odori di bruciato e di metallo; fu evasivo, fece finta di avere qualcosa da fare che all'improvviso gli era tornata in mente, e fischiettando si era allontanato alla chetichella dalla cucina.

Fischiettava sempre quando tentava di mascherare un disagio interiore: non era un vero e proprio suono orecchiabile, con un ritmo o una melodia. No. Era un'accozzaglia di note: una confusione totale; e si confondeva spesso, come quando si parlava della vita: <E che ci vuoi capire della vita, papà?!> Diceva ai figli adolescenti; il fatto di chiamarli “papà” era un mettersi amorevolmente dalla loro parte, disarmato, e non riuscire a comprendere, con loro, l'incomprensibile.

Fischiettava sconclusionatamente per ore. Smetteva. Riprendeva.

Mai un eccesso d'ira. Mai un'ostentazione di felicità. Tutto trascorreva tranquillamente, almeno così sembrava.

Diceva di aver provato emozioni stratosferiche solo quando era andato in America, al punto che ci sarebbe voluto rimanere, ma poi era prevalso il senso del dovere nei confronti della moglie e dei figli che in Abruzzo attendevano il suo ritorno.

A New York ci era andato senza sapere una parola di inglese, per promuovere i vini della sua azienda; poi, prima di tornare in Italia, era passato per Oakland a salutare suo fratello Giovanni.

Più vecchio di lui di quattro lustri, Giovanni era il mito della famiglia, il parente ricco che stava in America: era partito nel dopoguerra alla ricerca di fortuna, e la fortuna l'aveva trovata sul serio, oltreoceano, in California per giunta, dove il tepore adorabile delle giornate fa stare sempre di buonumore, senza la tristezza da suicidio della pioggia incessante.

Giovanni rappresentava il sogno americano compiuto.

Quando salì sull'aereo che dalla California l'avrebbe riportato a Roma, sentiva che quel fratello non l'avrebbe mai più incontrato. Fu così per davvero. E non solo: non gli scrisse mai; non gli telefonò mai, come se avesse voluto preservarne il ricordo di uomo perfetto, di quella perfezione che solo la mente può costruire e la realtà distruggere.

<Papà, zio Giò che fa?> Gli chiedevano ogni tanto i figli; e glielo chiesero per uno, due, dieci, quindici, venti anni.

<Papà, zio Giò sarà morto?> Ma lui niente; a quella domanda sempre più frequente cominciava a fischiettare con la solita accozzaglia di note, poi andava in camera da letto e tirava fuori dall'armadio un album. Le fotografie che ritraevano la Cadillac e la villa del fratello a Oakland erano ormai ingiallite e le foto dei figli, dalla loro nascita all'università, e quelle dei figli dei figli, gli sembravano ogni volta diverse. Le immagini non cambiavano ma lui le vedeva mutate, sempre.

Un giorno, aveva ormai ottantasette anni, disteso su un letto d'ospedale con i fili, i tubi e gli aghi che gli entravano e gli riuscivano da tutte le parti del corpo, ripensò ad alcuni momenti della sua vita: a quando, maestro trentenne, perché lui aveva un'azienda di vini ma aveva anche fatto il maestro, era andato in campagna a portare la pagella ai genitori contadini di un suo alunno, per convincerli a rimandare quel ragazzino a scuola.

Ripensò al nipote che, settenne, gli aveva chiesto in regalo una canna da pesca.

Ricordò il viaggio in America e la sua paura di volare: sull'aereo che traballava passando sull'oceano aveva pensato di morire!

Gli tornarono alla mente le feste di Natale con i fritti alla cannella; il giorno del matrimonio; la nascita dei figli; i compleanni.

In pochi minuti ripercorse tutta la sua esistenza.

Invocò la madre.

In pochi attimi perse quei ricordi.

La sua era stata una semplice vita: da maestro di campagna, da piccolo imprenditore; marito, padre, nonno.

Non aveva avuto la gloria di Giò, non aveva coronato, come Giò, alcun sogno americano. Ma perché mai la vita dovrebbe trascorrere dimostrando per forza qualcosa di straordinario agli altri?

La sua è stata una semplice vita.

Semplicemente una vita.

by Anna Maria Santoro ©


Pubblicato a Ottobre del 2008 su Il Giornale della Frentania


Nella foto: lo zio d'America Giodimondo D'Onofrio (in America: Gilmore D'Onofrio) negli anni Cinquanta del XX secolo


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