Sofia Gandarias, la sua arte a due anni dalla scomparsa
Guernica 1951 - Madrid 2016

 




Data dell'articolo: febbraio 2018
di Anna Maria Santoro



 Sofia Gandarias amava profondamente l’Italia, e quando Enrique Barón Crespo, che di lì a poco sarebbe diventato Presidente del Parlamento Europeo, nel 1987 le aveva chiesto di sposarlo, come condizione aveva posto la celebrazione delle nozze a Firenze o Venezia. La scelta, poi, era caduta su Ca’ Farsetti, l’antico palazzo che si affaccia sul Canal Grande, nella città che Guy de Maupassant definiva la "più desiderata dagli innamorati".

Tornavano sulla laguna ogni anno a settembre, e l’ultima visita alla Serenissima era avvenuta nel 2015: non ancora sapevano che lei era così tanto ammalata.


Dolcissima nei modi e nell’aspetto, era nata a Guernica nel 1951. I primi quadri li aveva dipinti nella sua città natale quand’era appena adolescente.

Trasferita a Madrid, nel 1973 si era iscritta alla Reale Accademia di Belle Arti di San Fernando, dove insegnava Manuel Villaseñor, suo maestro, e si era laureata con una tesi sul ritratto.

A ispirare la sua creatività erano la musica e le immagini di Velázquez, Goya e Bacon.

A Madrid, non mancava mai agli appuntamenti annuali ad ARCO, la Fiera Internazionale d’Arte Contemporanea dove, alla fine degli anni Ottanta, il gallerista milanese Alfredo Paglione disponeva di uno spazio espositivo per la sua "Galleria Trentaue". Gandarias frequentava assiduamente quello spazio: perché Paglione sfoggiava uno spagnolo ch’era fluente, perché vi erano esposte pitture esclusivamente figurative, e perché si considerava in cuor suo mezza italiana, tanto da scegliere Venezia per la sua retrospettiva del 1990.

La sua produzione, presente in Europa e in America, conta oltre ottocentocinquanta dipinti, classificati in serie tematiche e per soggetti, in un catalogo ragionato.



Ha ritratto scrittori, pittori, musicisti e pensatori ostili alle guerre e alla violenza, interpretando il dolore asservito alla morte negli accadimenti di genocidi, attentati e fanatismi religiosi che la storia ha consegnato al mondo.

Le sue immagini, su tele dipinte ad olio mescolato talvolta a sabbia, veline e polvere di marmo, hanno cromie cupe, fondi neri e toni freddi. E nella rarità del loro uso, i colori primari presentano significati opposti alla loro valenza originaria: il rosso non è passione ma sangue; il giallo non è luce ma ostentazione di ricchezza decaduta; il blu, tutt’altro che quiete, è trasformato in simbolo di sgomento. 

La vasta serie dei ritratti, eseguiti dal 1978 al 2014 e da lei stessa definiti Presenze, al di là delle fattezze fisiche riconoscibili, simboleggia un mondo interiore abitato da furtive visioni oniriche: "Come Bacon, … non è interessata a catturare un ritratto fugace - si legge in uno scritto di Kosme de Barañano - ma il pathos della sua esistenza. La riflessione formale, come quella di Bacon o Giacometti, è riflessione visiva sulla figura defigurata, non solo trasformata in un'ombra espressiva e incorniciata come un avviso di morte, ma completamente trasformata in erosione".

Fissate sulle sue tele, si leggono gli sguardi di personalità insignite di Premi Nobel come Lessing, Neruda, Márquez, Mistral, Rita Levi Montalcini. E di artisti dal grandioso ingegno: Borges, Lorca. E Luis Buñuel. E la Callas nella Medea di Pasolini con collage di foto del poeta e del soprano. E Dalì; Diego Rivera e Frida Kahlo insieme; Sassu ed Helenita Olivares; Yehudi Menuhin. Con alcuni di loro, c’era stato anche uno stretto rapporto di amicizia.

La sua arte non è solo ritratto, ma un modo per comunicare la cecità del burqa, ed è un tributo alle vittime dei massacri: alle vittime delle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001; alle vittime degli attacchi terroristici di matrice islamica a Madrid dell’11 marzo del 2004, con la serie dal titolo Il pianto dei fiori. Ma anche alle vittime del bombardamento del 1937 alla sua città natale. E alle vittime ebraiche, con due serie piene di simboli surreali e malinconie: Kafka il visionario e Primo Levi.



E quando i talebani avevano ostentato all’intera umanità la loro furia iconoclasta nel 2001, così ne aveva scritto: "Ho iniziato la serie di Gandhara pensando alla distruzione dei Buddha in Afghanistan, in ciò che per me significa l'umiliazione e il silenzio delle donne, nello stesso luogo in cui fiorì quella grandiosa civiltà …".

Dal 7 novembre al 16 dicembre del 2017, il gruppo di opere dal titolo Gandhara è stato esposto a Badajoz: "Questa mostra – si legge nella presentazione di Miguel Angel Gallardo Miranda, presidente del Consiglio Provinciale di Badajoz - serve come testimonianza permanente dell’espressione della sensibilità e dell’intelligenza nell’Arte, di fronte alla barbarie e ai dogmatismi, così come del valore della interculturalità a favore della convivenza e della comprensione fra gli uomini".


Articolo pubblicato sul mensile Il Borghese, numero di febbraio 2018

Le foto, sono tratte dal catalogo ragionato, per gentile concessione 

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