BIENNALE DI VENEZIA 2009 

(53esima edizione)

FARE MONDI

LA VERNICE

 


di Anna Maria Santoro



AI CONFINI DELL'ARTE



Dall'alto di un aereo o dal finestrino di un treno in corsa, il paesaggio veneto ricorda il susseguirsi delle opere d'arte in un museo: antichi casolari che rammentano le campiture di Cézanne; distese d'acqua simili alle cromie di Monet; filari allineati come i segni di Balla.




Nella fantasia evocativa, quei dipinti canonizzati si affiancano agli scritti di Hemingway, Thomas Mann e Melania Mazzucco; alle immagini del Caffè Florian; ai mascareri; ai vetri soffiati e alle pesche bianche di un Bellini ghiacciato.




Quando si arriva a Venezia la prima sensazione di disorientamento si avverte nei pressi della stazione ferroviaria che guarda gli ormeggi dei vaporetti tra i rumori ovattati dello sciabordìo delle acque, nel bel mezzo del fiume in piena dei "pellegrini della cultura": attraversando il ponte di Calatrava, gli scalini dalle pedate in vetro cambiano continuamente in ampiezza, mutando il ritmo dei passi che lo attraversano. Le indicazioni per la Biennale compaiono ai piedi di quella "passerella di luce" sul Canal Grande, in un totem rosso dalla scritta bianca: "Fare Mondi, Direttore Daniel Birnbaum", un titolo mutuato dal libro di Nelson Goodman "Ways of Worldmaking" alias "Vedere e costruire il Mondo". Per Birnbaum, rettore della Staedelschule di Francoforte, l'opera d'arte non è un oggetto da possedere ma visione di una realtà nella quale riflettersi: <Qualche segno tracciato sulla carta, una tela appena sfiorata o una vasta installazione possono costituire modi diversi di fare mondi> e la forza della visione non dipende dalla complessità degli strumenti. 





Disegni, video, sculture e performance ai Giardini, all'Arsenale e negli eventi a latere lungo calli e campielli, con confini labili tra arte e téchne: sperimentazioni che necessitano di decodifiche ma piacciono, oppure fanno rimanere perplessi o sorpresi nel domandarsi che cosa sia l'arte. 



"Non esiste una cosa chiamata arte" scrive Gombrich, ma esistono gli artisti e le loro opere ed è più importante capire il ruolo di ciascuno che ciò che producono.




Superata la biglietteria, lungo i viali dei Giardini si incontrano i Padiglioni della Spagna; dell'Olanda; del Belgio con in quadri di Jef Geys: una teoria di foto che testimonia la sua ricerca, di piante officinali per i senzatetto, iniziata nel 1934; Gosha Ostretsov e Anatolij Shuravlev con "Vittoria sul Futuro": foto miniaturizzate all'interno di sfere che saturano lo spazio espositivo del Padiglione russo; la performance dei Paesi Nordici, "Home is the place you left", che simula la messa in vendita di una casa; il giardino del Moscow Poetry Club: <In poesia i mondi sono fatti da parole. Ma allora come funzionano i mondi, come parole o come realtà?>





I lavori in vetro di Dale Chihuly e di Maria Grazia Rosin al Padiglione di Venezia dove le arti applicative entrano in esplicita connessione con l'epistème e con il gusto; le proiezioni in Claymation di Nathalie Djurberg in un surrealistico giardino dell'Eden  in cui tutto ciò che è naturale viene mostrato corrotto; e "Wilhelm Noack oHG" di Simon Starling: un film realizzato sull'omonima azienda metallurgica berlinese con la pellicola che scorre lungo un'elegante scultura ellittica; e Yoko Ono, che usa le parole per forzare i limiti degli ordini creativi con un "dipinto che esiste solo quando è copiato e fotografato. Lascia che la gente copi o fotografi i tuoi dipinti. Distruggi gli originali". Idee di difficile comprensione, talvolta arbitraria.





Pare che l'arte voglia stupire o ingannare, come la caffetteria al Palazzo delle Esposizioni, fino al 2007 Padiglione Italia, curata da Tobias Rehberger e ispirata ai disegni mimetici del Dazzle camouflage, con distorsioni dello spazio che fanno confondere visivamente.








Quando si arriva all'Arsenale c'è odore di legno, metalli, cartone, colle e muffe: ci si imbatte nei vetri infranti di Pistoletto; nei fili d'oro di Lygia Pape che cercano la tridimensionalità della luce; nel milione di cartoline di Aleksandra Mir sulle quali è stampata la parola "Venezia" ma con le immagini di luoghi geografici di tutto il mondo caratterizzati dalla presenza dell'acqua; e poi architetture che evocano i piccoli villaggi africani; pavimenti disseminati di fili, bottiglie, rocchetti, palline e corde come una cartografia che evidenzia collegamenti tra spazio e tempo, tra ricordi e storia; installazioni di capelli annodati; e "giochi per la mente" di Madelon Vriesendorp, con oggetti che rappresentano l'inconscio; costellazioni di elettrodomestici che costringono, al buio, a cercarli e a guardarli svincolati dalla loro funzione. Poi, al Padiglione Italia, da quest'anno in una stanza dell'Arsenale fino al Giardino delle Vergini: Luca Pignatelli, Sandro Chia, Matteo Basilé, Marco Lodola, Bertozzi&Casoni.






All'esterno alcuni gommoni galleggiano sull'acqua sovrastata da microfoni che amplificano rumori di posate e chiacchiericci: è "Site-specific" di Tamara Grcic; poi, una palude inserita in un giardino con una didascalia inequivocabile: "Momentary Monument"  di Lara Favaretto; e il commento di un visitatore: <Anche queste sono opere?! Dioobbòno!> Allora in quel momento si pensa a Picasso: escluso dalla Biennale del 1905 perché "troppo innovativo", vi poté esporre solo nel 1948; ma si pensa anche alle grida di scandalo della stampa clericale alla prima edizione del 1895 per il "Supremo Convegno" di Giacomo Grosso; e alle proteste di Marinetti e Prampolini contro il Consiglio Direttivo della XIV edizione che nel 1924 decretò l'ennesima esclusione dei futuristi; ma, soprattutto, non si può non pensare all'immaterialismo berkeleiano: l'essere di un oggetto è il suo venire percepito e nient'altro.  



Pubblicato numero Agosto/Settembre 2009  <Il Borghese> 


Venezia, giugno 2009, ph Anna Maria Santoro ©


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