BIENNALE DI VENEZIA 2013 

(55esima edizione)

IL PALAZZO

ENCICLOPEDICO

LA VERNICE

 


di Anna Maria Santoro
















Oltre i limiti dei binari il selciato è ancora umido dopo la pioggia.




 Tra le voci incomprensibili e spezzate che risuonano dal piazzale della stazione ferroviaria, il viavai dei battelli preannuncia immagini di un paradiso piantato tutt'intorno in nome dell'arte, per affrancare dalle inquietudini il desiderio di verità dell'uomo sebbene la verità, negli scritti di Dostoevskij, appaia sempre inverosimile.



                                   

 

Come miraggio che promette incanti, la Biennale di quest'anno accoglie i visitatori con la lusinga di figure fantasticate, per raccontare mondi diversi in nome di una storia antropologica dell'immagine che solleciti a rincorrere le illusioni, annullando le distinzioni tra dilettanti e professionisti; è così che l'ha voluta Massimiliano Gioni, perché accanto alle performance, alle opere contemporanee e del secolo passato che si dilatano ai Giardini, all'Arsenale, lungo le calli e i campielli che si affacciano sui Canali, vede esposti anche i lavori di autodidatti dai nomi sconosciuti; sono autori ossessionati dal sapere, che non hanno la pretesa di essere definiti artisti e che nell'atto della creazione avvicinano i confini della vita e della morte perché la vita non dà tregua. E trovano riparo nel sogno di visioni ultraterrene. Ci sono perfino i Gift Drawings delle comunità Shaker e i disegni di uno sciamano delle isole Salomone che per la prima volta, negli anni Trenta, usa una matita.

 

 

 Le opere aspettano, silenziose, il dialogo coi viandanti in una mostra che mutua il titolo dal Palazzo Enciclopedico progettato da Marino Auriti nel 1955 per ospitare, in 136 piani, l'intero sapere dell'umanità ma, poi, mai realizzato.

 Il vaporetto dell'arte si muove, lento, dal piazzale della stazione; accelera la sua corsa insieme all'ansia dei passeggeri.


 





 Il Ponte di Rialto; le architetture bizantine; il Ponte dell'Accademia; la casa di Peggy Guggenheim; la villa battezzata da d'Annunzio la "Casetta rossa" in cui ambientò il suo romanzo Il Fuoco; poi, il Canal Grande si fa bacino e in quell'immensa distesa d'acqua la bellezza di Venezia diventa esagerata, dimentica delle miserie umane riecheggiate da Sartre su quelle rive ma, a ricordarle, è la presenza dell'opera di Marc Quinn posata, gigantesca, sull'isola di San Giorgio: una donna focomelica incinta con lo sguardo verso San Marco.

 

                        

 

 <Next stop: Giardini>. La voce metallica preannuncia la fermata. Le alghe infagottano la stazione galleggiante con l'odore della Biennale. Non è un odore vero e proprio ma il gusto generato dal pensiero di un'avventura attesa.

Lungo il viale s'incociano gli sguardi degli artisti.




Piove.

Ci s'incammina con gli ombrelli aperti che ingombrano e infastidiscono, ostacolando il senso di libertà che si desidera conquistare nella consapevolezza che, comunque, la libertà è solo una parola tremolante.  


Il Padiglione Centrale si apre con il Libro rosso di Carl Gustav Jung, rosso perché rossa è la copertina; pare un codice miniato. Non contiene le sue teorie sull'inconscio collettivo ma i disegni di quando temeva di essere, egli stesso, sull'orlo della follia: dal 1913, per 16 anni, ve ne dipinge le sue visioni di Dio, iniziate ch'era ancora dodicenne.

Le profezie proseguono coi diagrammi di Rudolf Steiner, con le cartografie dell'universo trasmesse dall'aldilà a Hilma af Klint e con le effigi che Augustin Lesage realizza quando, nel 1911, sente voci che gli predicono il suo futuro di pittore mentre lavora nelle profondità dei pozzi di una miniera. Chiudendo gli occhi, pare che tutto possa accadere.

 


 I suoni delle performance rimbalzano per le stanze; giocano sulle volte che ne rimandano gli echi. Si fanno fioche. Si spengono quasi, fino alla quiete del mondo in miniatura nella sala 7: sono cascine, banche, chiese e distributori di benzina costruiti tra il 1950 e '60, con cartoni e riviste, da un impiegato delle assicurazioni austriache di nome Peter Fritz di cui sa ben poco, trovati da Oliver Croy nella bottega di un rigattiere, chiusi in sacchi per la spazzatura.


 

 





Poco più avanti, dopo le opere di Maria Lassnig e Marisa Merz si fa una sosta tra le bambole di gesso di Morton Bartlett, in fila, su una gradinata, per vedere gli accadimenti della vita riprodotti in creta da Peter Fischli e David Weiss.

 




Lo stupore si prolunga nel Padiglione degli Stati Uniti d'America, davanti all'installazione disorientante di Sarah Sze e nelle stanze della Russia dove l'accesso è consentito solo alle donne: è in loro che Vadim Zakharov confida per fermare la circolazione del denaro, con l'invito a non raccoglierlo da terra dove si deposita come pioggia.


 

Tra l'odore acido delle foglie umide e l'aroma del caffè, si cerca un luogo in cui è possibile acquietarsi.


 

All'ingresso della Corea fanno togliere le scarpe; i visitatori li rinchiudono prigionieri nel pozzo della non-esistenza; un luogo totalmente al buio e senza riferimenti per smettere di pensare. O forse per cominciare a pensare.



A piedi nudi, in una condizione di silenzio e solitudine, viene in mente l'atemporalità creata da Mark Manders nel Padiglione dell'Olanda, con finestre tappezzate da giornali senza date né luoghi; e poi l'opera di  Konrad Smoleński, che ritarda il suono di due campane rispetto al loro movimento confermando, quasi, le teorie della fisica moderna che considera illusione lo scorrere del tempo; e, ancora, la strana vita di Roberto Cuoghi, che all'Arsenale espone la sua scultura dal titolo “Belinda”, che all'età di 25 anni decide di essere suo padre: si tinge i capelli di bianco e indossa i suoi abiti. Solo alla morte del genitore ribalta il finto invecchiamento e torna alla sua vera età biologica.



 

 Quando si esce dai Giardini il cielo azzurro inghiotte il mare spogliandolo d'identità, come l'installazione di Stefano Cagol a Riva Ca' di Dio annullata dal calore della terra: un monolite di ghiaccio portavoce del "global warming", con una telecamera che documenta la sua lenta dissoluzione.


 

 Davanti all'Arsenale ci si aspetta la vastità inquietante del passato. Invece, con l'architetto Annabelle Selldorf quest'anno Gioni ha ridotto gli enormi spazi con pannelli in cartongesso. Ha seguito lo schema delle wunderkammer, le piccole camere delle meraviglie, per percorsi meditativi che trasformano; alcune opere sono di autori affetti da disturbi psichici, assemblate con materiali strampalati nella solitudine della loro mente, come Arthur Bispo do Rosário, cinquant'anni di ricovero in manicomio: raccoglie scarpe, collane e foto; ci riempie l'ospedale; e ricama arazzi con il filo azzurro delle divise degli internati.

 

 


E poi Shinichi Sawada, autistico. 

Ci sono perfino gli ex voto del Santuario di Romituzzo, commissionati dai credenti e fabbricati in cartapesta dagli artigiani.









La Santa Sede partecipa per la prima volta. Si ispira alla Genesi: appoggiando le mani sui video, le figure silenziose si fermano, si voltano verso lo spettatore; lo accarezzano quasi; gli raccontano la loro vita. Con le parole. Con i segni. Allora viene in mente Crumb, così diverso nel presentare quella stessa Genesi: a fumetti, senza censure.

 

Poco più avanti, Jhafis Quintero regala i suoi disegni lanciati appesi a un filo, come messaggi tra carcerati, mentre la musica dell'orchestra dentro a una barca si mescola alla nenia di Ossido ferrico, proveniente dal Padiglione Italia.



All'uscita, sui fianchi dei vaporetti si legge "die grazie einer geste"; in cinese; poi in russo. E' The grace of a gesture, l'opera di Lawrence Weiner perché la Biennale è anche questo; poche parole, che sull'acqua scivolano, con la grazia di un gesto.


Pubblicato sul mensile Il Borghese, numero di ottobre 2013 


Venezia, 30 e 31 maggio 2013, ph Anna Maria Santoro e Vincenzo D'Onofrio  ©  





 

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