BIENNALE DI VENEZIA 2017 

(57esima edizione)

VIVA ARTE VIVA

LA VERNICE

 

di Anna Maria Santoro


 

 

 E' l'alba. La nebbia imbianca Venezia di solitudine. Fa freddo. Sul vaporetto si è costretti a ripararsi sottocoperta dove lo sguardo non può spaziare e si fa strada, basso, tra i riflessi dei palazzi che paiono sostanze materiali sopra lo specchio d'acqua, come il sonno che fa apparire veri i sogni.

 

 Il titolo della Biennale di quest'anno è Viva Arte viva; fa pensare alla filosofia di Nietzsche e al suo "sì alla vita;" e come stanze di una poesia, la curatrice Christine Macel ha ideato una mostra con nove temi che accarezzano la mente con gli argomenti dei Libri e degli artisti, Le Gioie e le paure, Lo Spazio, La Terra, Le Tradizioni, Gli Sciamani, Il Dionisiaco, I Colori, e Il Tempo e l'infinito. Sempre, come sempre, le esibizioni nazionali e gli eventi a latere riempiono gli spazi soliti con insoliti allestimenti: con tavole imbandite dove sedersi per un pranzo con gli artisti, video che li ritraggono in momenti di vita familiare o all'interno dei loro studi, e raccolte di libri da loro letti, per la possibile comprensione di una Storia dell'arte che sta mutando, come a porre il divieto di pensare "questo lo saprei fare anch'io".

 

 All'ingresso dei Giardini la fila è lunga, punzecchiata da telecamere, fotocamere e cavalletti che spuntano come armamenti in guerra assecondando il desiderio di conquistare a fatica il senso straniero della Biennale.




 Il primo artista che s'incontra è David Medalla; è all'ingresso esterno del Padiglione Centrale. Poi, quando si entra, ci s'imbatte nello Studio nomade di Dawn Kasper allestito con un tavolo, un giradischi, un computer, un divano e una poltrona nella Sala ottagonale dove ha deciso di vivere per tutti i sei mesi della mostra.

 

 Più avanti, Olafur Eliasson invita gli immigrati ad assemblare moduli di lampade e poco più in là sono esposti, come in vetrina nei negozi, grovigli di posate, di imbuti, mollette per i panni, occhiali e stampini per biscotti: è Supermarket, l’installazione di Hassan Sharif scomparso a Dubai nel 2016, che rappresenta il suo resistere al consumismo degli Emirati Arabi.





Il viaggio prosegue tra i libri bruciati di John Latham mentre alcuni visitatori sono invitati nel Giardino delle Sculture per ricevere un dono dell'artista Lee Mingwei, con l'invito ad aprirlo in un momento di bellezza successiva.

 Ciò che stupisce è che ogni cosa non cessa di stupire.

 A pranzo ci si riversa sui viali dei Giardini; il cielo non è più coperto. L'atmosfera si riempie di colori: di pagliette, cappelli, capelli e abiti che si accendono di ogni tinta. C'è chi brinda; chi fuma al sole o gusta un'insalata togliendosi le scarpe sopra ai prati. C'è perfino qualche fragola selvatica. E chi chiude il cellulare con un <Ciaociaociaociao> come se un solo ciao non fosse sufficiente. Nella calca s'incontra anche Baratta. E tra un prosit e l'altro, l'installazione di Paulo Bruscky viene usata per appoggiare i bicchieri semivuoti di un prosecco mentre s'ode, lontano, il canto di danza degli sciamani nella performance di Ernesto Neto.

 

 Sull'erba è rovesciata una scarpina; ci sono tanti bimbi, accartocciati nei marsupi e con gli occhioni spalancati ignari.


Il Padiglione d'Israele di Gal Weinstein sembra un luogo abbandonato e desolato. Fa pensare alle muffe maleodoranti del Padiglone Italia all'Arsenale, dove Roberto Cuoghi ha realizzato l'Imitazione di Cristo: una serie di corpi in decomposizione che aumentano il disfacimento man mano che si percorrono i cunicoli della morte.



A Corte Nova le canoe scivolano sull'acqua, come fossero opere d'arte. Tutto, a Venezia, ha il diritto di diventare arte.

Di fronte all'Arsenale c'è Samson Young da Hong Kong che indossa una giacca gialla; e Wong Cheng Pou della regione di Macao che espone le creature mitologiche cinesi che curano montagne e mari.



 


 Ci s'incammina, alle Corderie, alla ricerca di messaggi da interpretare: si tenta di trovarli nel video di Avila Forero che percuote un fiume come un tamburo; nelle scarpe da ginnastica di Michel Blazy dove crescono fili d'erba; nelle farfalle di stoffa di Petrit Halilaj, stremate al suolo e aggrappate alle pareti che raccontano la guerra in Kosovo.

 

Come al solito le opere sono troppe. E difficili da comprendere. Come la vita. Ma è proprio questo, forse, che attrae.


Al Padiglione della Tunisia ci si mette in fila per avere un passaporto con l'impronta del proprio pollice: è un documento di viaggio universale che annulla ogni frontiera.


Poi, al semibuio, non si capisce bene cosa guardare davanti all'opera di Calò al Padiglione Italia, fino a che un visitatore sconosciuto sussurra un invito all'attenzione: <C'è l'acqua a riflettere la volta costruita a capriate!>

All'uscita, Kishio Suga ha installato una serie di grosse pietre che fluttua nel bacino delle Gaggiandre.

Gli artisti sono fermi e intervistati in ogni angolo. Per strada i ragazzi regalano le guide. Lungo le calli manca l'aria.

A Ca’ San Vio svetta tra cielo e terra The Golden Tower, di James Lee Byars, mentre le opere di ossa umane e vetro di Jan Fabre sono esposte all'Abbazia di San Gregorio, alcune verniciate con l'inchiostro di una penna Bic.




Poco lontano da Rialto Lorenzo Quinn ha costruito due mani di nove metri che spuntano dal Canal Grande e si aggrappano a Palazzo Morosini Sagredo.


 


Stanchi, si va a cercare ristoro sulle panchine del Giardino della Marinaressa accanto alle  Nuotatrici  di resina di Feuerman.



Un cane al guinzaglio abbaia: <E' perché ti tegà fermà> si sente urlare.

 Quando si torna nei pressi dell'Arsenale s'incontrano Antonio e Flavia con un minuscolo cartello "Attenzione Arte impercettibile in corso". Fanno pensare alla protesta del 1968 coi cartelloni "No alla cultura dei padroni".


RIPRODUZIONE VIETATA

Pubblicato sul mensile Il Borghese, numero di luglio 2017  

Venezia, 10, 11, 12 maggio 2017, ph Anna Maria Santoro e Vincenzo D'Onofrio ©






  






Make a free website with Yola