Frida Kahlo

Scuderie del Quirinale, Roma 

dal 20 marzo al 31 agosto 2014 

a cura di Helga  Prignitz-Poda


Articolo di Anna Maria Santoro



 Alle 9,30 in via Ventiquattro Maggio, il 24 maggio 2014, in una Roma assolata che assorbe i pensieri davanti al portone ancora chiuso delle Scuderie del Quirinale dove spicca la scritta "Frida Kahlo, 20 marzo – 31 agosto 2014, apertura ore 10", c'è una fila ordinata, ma solo dall'obbligo delle transenne; hanno un fare svogliato quelle persone in coda, e una flemma che stride con la sfida a ripescare immagini di vita di un'artista che ha fatto di sé un'opera d'arte, angosciata al punto da scrivere, poco prima di morire, a 47 anni: "Spero che l'uscita sia gioiosa, spero di non tornare più".




   

Superato il frastuono della biglietteria, ci si aspetta di incontrare Frida, oggi, a sessant'anni dalla sua scomparsa.




Rivoluzionaria. Figlia del Messico rivoluzionario: "Avevo sette anni quando ci fu la "Decena Trágica" e vidi con i miei occhi la lotta tra i contadini di Zapata e i Carrancisti". 

Ma figlia, anche, di una rivoluzione esistenziale impastata dal dolore fisico, che negli ultimi anni la porterà a dipingere quasi sempre stando a letto. La polio da bambina; tre gravidanze spezzate; infinite operazioni per un incidente a 17 anni: "Avevamo preso un altro autobus, - è il 1925 - solo che io avevo perso un ombrellino. Scendemmo a cercarlo e fu così che salimmo su quell'autobus che mi rovinò".




La luce sempre più fioca, la ripidità dei gradoni e quel girare su se stessi per l'andamento ellittico delle rampe per giungere all'inizio della mostra al primo piano, danno un senso di intontimento, accentuato da una voce d'indefinita provenienza; rimbombante: "Non si può fotografare. Grazie".

No, nemmeno senza flash!


I pannelli espositivi sono tinteggiati con le gradazioni della terra di Siena: coi toni cupi del marrone, dell'arancione smorzato, e di un rosso che si presenta buio e pesante. 

Sulla destra della prima sala c'è Paesaggio con cactus, dipinto nel 1931 dal marito Diego Rivera: "Ho subito due gravi incidenti nella mia vita – si legge nel suo Diario - il primo è stato quando un tram mi ha travolto; il secondo è stato Diego". I due si vedranno su una pellicola nella sala numero sette del secondo piano, ripresi in una scena di vita quotidiana: lui raccoglie tre fiori rossi; glieli dona; la bacia sulla guancia. Si baciano. Ma è un amore ossessivo perché si sposano; si dividono; tornano insieme a vivere. Divorziano. Si risposano. La tradisce perfino con Cristina Kahlo, sua sorella. Diego è sempre nei suoi pensieri come un tormento: ne dipinge il volto sulla sua fronte, in un Autoritratto del 1941.


Nella sala numero tre c'è Paesaggio urbano, del 1925; è lo scenario che Frida vede da una finestra dell'ospedale dove viene ricoverata dopo l'incidente. E' lì che i suoi propositi di diventare medico avendo superato, due anni prima e su duemila concorrenti, l'esame di ammissione all'Escuela Nacional Preparatoria all'Università, lasceranno il posto all'intento di dedicarsi alla pittura: "Nel periodo in cui dovetti rimanere a lungo a letto, approfittai dell'occasione e chiesi a mio padre di darmi la sua scatola di colori. … Mia madre fece preparare da un falegname un cavalletto … perché il busto di gesso non mi permetteva di stare dritta". Verrà montato un grande specchio in camera; Frida diventerà modello di se stessa e si ritrarrà, sempre, con le sue folte sopracciglia, somiglianti ad ali che si levano in volo; marcatamente scure, come la peluria al di sopra della bocca. Quel corsetto ortopedico è esposto nella sala numero sette, decorato come fosse un'armatura medioevale, con la falce e il martello, e la luna e il sole, i due astri rappresentati con frequenza, con la speranza di conciliare l'insanabile opposizione tra lei e Diego.


Il percorso prosegue con ritratti e disegni sull'aborto e sulla libertà. Come nei quadri votivi messicani, gli oggetti sono dipinti con esattezza, mentre i paesaggi fanno da sfondo solamente. 

"Anche se André Breton … le ha detto che è surrealista, … il suo stile è una specie di “ingenuo” surrealismo, inventato per lei stessa", si legge nell'articolo di Bertram D. Wolfe pubblicato sulla rivista Vogue, nel 1938. L'anno successivo, a Parigi, Frida scriverà: "Marcel Duchamp è l'unico, di questo mucchio di pazzi figli di puttana di surrealisti, con i piedi ben piantati per terra". E poi, ancora: "mi fanno vomitare. Sono così maledettamente “intellettuali” e decadenti".




Dopo una rampa a chiocciola e l'indicazione "Caffetteria e Percorso mostra a destra", s'incontra Frida al secondo piano, in un autoritratto del 1943 con quattro scimmie che rappresentano i suoi quattro più fedeli allievi dell'Accademia dove insegna. Si erano dati il soprannome di Los Fridos. Guillermo Monray, Fanny Rabel, Arturo Garcia Bustos e Arturo Estrada. E poi i disegni del suo Diario; a inchiostro, a matita, ad acquerello e a carboncino, con l'allegria, l'inquietudine, l'angustia, il panico. E pazzia; dolore; pace, amore. Ira. E frutta, comprata per lei al mercato, tenuta sul comodino per essere dipinta; e il suo volto raffigurato come un appassito girasole, dove il disegno diventa quasi uno scarabocchio.


L'ultima opera è un autoritratto, con una curva lemniscata, a forma di 8, in astronomia simbolo dell'infinito, e una colomba, un'allusione alla poesia di Rafael Alberti del 1941: "Si sbagliò la colomba /  Si sbagliava. / Per andare al nord fuggì al sud. / … / Si sbagliava. / Credette che il mare fosse il cielo; / e la notte, la mattina. / Si sbagliava. / Credette …  / …  Si sbagliava. / (Lei si addormentò sulla spiaggia. / Tu, sulla cima di un ramo)".


Si esce. E dalla vetrata progettata da Gae Aulenti si vedono, lontano, l'Altare della Patria e la Cupola di San Pietro; e il Gianicolo; Monte Mario; Il Pincio. Si apre, immensa, la veduta di Roma.











 Pubblicato sul mensile Il Borghese, numero di luglio 2014


Roma, giugno/luglio 2014, ph Anna Maria Santoro  


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