Recensione del 2010
Giuseppe Ferraro, FILOSOFIA FUORI LE MURA, Filema, 2010
A colloquio con
Giuseppe Ferraro
Dicembre 2010
a cura di Anna Maria Santoro
Quando scompone l'ordine di ogni luogo, è allora che la filosofia è fuori luogo, quando arriva dove la vita non ha senso, per cogliere l'eccezione che comporta la norma e vedere quel che manca in quel che c'è perché quel che c'è sia veramente quel che è; e abbia luogo.
La “Filosofia fuori le mura” di Giuseppe Ferraro non è un semplice trasferire le lezioni lontano dagli ambiti accademici ma capire che ne è di questa disciplina nei luoghi ad essa non peculiari; comprendere, tra i detenuti e nelle scuole dei quartieri estremi, che <non si può insegnare filosofia> ma <si può insegnare con la filosofia>; non che cosa ma di cosa; non la felicità <ma felici>; e se la sua etimologia denota un'espressione che porta a un sentimento, <esso è da intendere non come amore del sapere ma come sapere della filìa che mira a conoscere se stesso nell'altro e come altro> attraverso legami che rendono possibile l'essere di qualcosa sicché <se l'insegnabile rimanda alla ripetizione, il non insegnabile alla restituzione, alle relazioni; così, ad esempio, un bravo artigiano non farà mai grandi discorsi ma dirà “mettiti qui e vedi”; e tu puoi guardare e apprendere. E devi essere tu a fare tuo ciò che è suo>, per esemplarità; per imitazione; come logon didonai.
Giuseppe Ferraro con Suor Agostina Viale, Preside del Liceo Scientifico e del Liceo della Comunicazione, dell'Istituto della Beata Vergine del Carmine gestito dalle Orsoline a Chieti
Nella sua ricerca sul metodo Ferraro pone la distinzione tra cose certe e vere; proprio e improprio; vita ed esistenza. <Noi siamo vita come viventi, esattamente come il cane che vedo per strada, ma abbiamo vita come esistenti. La vita che siamo ci è impropria, non è nostra. Quella che abbiamo, che scegliamo, progettiamo e soffriamo ci è propria>.
E’ la stessa distinzione tra Zoe e Biòn. <Nel legame d'amore si stabilisce un rapporto a tre: tra l'improprio della vita che si è, il proprio della vita che si ha e il non proprio che l'altro rappresenta, che io incontro e che non sono io; è inutile andare a fantasticare sull'empatia; è un altro; e in quel non proprio sono collegati l’esistenza e la vita.>
Tra i luoghi dove Ferraro indaga su queste argomentazioni c'è Scampìa dove, <ad entrarci, la prima cosa che si trova è il carcere di Secondigliano, che non si distingue dalle altre palazzine>. Quando l'attraversa per la prima volta, con l'ansia dell'estraneo, vede solo le cose delle quali aveva letto: <l'ambulante che vende tutto fuorché quello che tiene esposto sulla bancarella; il motorino che taglia la strada; la spazzatura>; ma dopo avervi portato la filosofia, <un giorno, là, ho cominciato a sentire, come cosa vera, l'odore dei gelsomini. C'era pure prima ma io non lo sentivo. Ho iniziato ad averne coscienza solo quando quelle persone dalle quali io andavo non erano più persone di Scampia ma individui con i quali avevo parlato di sentimenti, stabilito relazioni; perché i luoghi profumano di legami; di memoria. Lo si capisce dalla casa dei nonni quando si è bambini sicché sono certe le cose che si toccano. Sono vere le cose che ci toccano. Ci coinvolgono.
La verità sta nel divenire> ed è un percorso interiore che ha a che fare con l'innocenza. <Si dice che colpevoli si diventa e che l'innocenza si perde ma io provo a ragionare al contrario. Esiste una verità propria che contiene i valori ed è un lavoro di “sincerazione” di se stessi, è un impegno, non una cosa fissata una volta per tutte> solo che, spesso, la nostra verità non coincide con la nostra storia.
Deridda diceva che la filosofia è “lo svegliare e il risveglio”. Nietzsche scriveva di sé di “essere questo e quello” pregando il lettore di non “prenderlo per un altro”. E allora per Ferraro, questo stare sulla soglia tra il sogno e il discorso, potrà essere l'uno e l'altro, un “quasi”, sicché il filosofo è quasi poeta, quasi pittore, quasi musicista. Il quasi indica una verosimiglianza <e noi siamo veri quando facciamo questo sforzo di somiglianza al vero. Ci si assomiglia tra padri e figli ma anche tra amici; e questa è l'espressione più forte di un legame. Le persone che sono abituate a stare insieme dopo un po' si trovano a pensare le stesse cose nel medesimo momento. L'uno diventa quasi come l'altro ma mai come l'altro, perché esiste una soglia. A me piace fare questo esempio: un insegnante è un vero insegnante quando è quasi un padre, quasi madre, quasi amico dell'allievo ma non deve essere né amico, né padre, né madre. E allora quel “quasi” è un mettersi nell'osservanza dell'altro>, è un punto di vicinanza ma anche di salvaguardia; di irraggiungibilità.
Tutta la vita è sogno e sulla soglia tra l'immaginazione e la realtà la filosofia si fa etica, legame tra la vita e il mondo; l'Ethos è il Sé in cui si ripara l'io; lo si riprende; lo si riaggiusta ogni volta, <è il posto interiore dove si ritorna e dove c'è ritorno c'è un legame. C'è affetto>.
Nel leggere le indicazioni del Protreptikon si comprende come l'esortazione a questa disciplina sia rivolta a chi ha compiti di responsabilità: <i politici non possono fare a meno della filosofia; credo che un politico che faccia e che sappia di filosofia sia semplicemente una persona; senza di essa non può vedere quel che manca in quel che c'è ma quello che gli manca e, quindi, semplicemente quello che può prendere. La politica, invece, necessita di pensosità; sensibilità; di Ethos; il problema più grande è che si è fatta professione di se stessa e disattenzione alla collettività, con maschere e ruoli da mantenere a ogni costo, come in una recita.
La verità dell'Italia dovrebbe essere un divenire; un impegno. I nomi non basta scriverli su una porta; bisogna divenire quello che si è>, mutuando un'espressione da Nietzsche <diventare viventi. Vorrei vedere, un giorno, che nel nostro Parlamento si faccia a gara tra Governo e opposizione per risolvere, insieme, i problemi di tutti mantenendo, comunque, le differenze. Se facciamo di questo Paese un Paese di separati, facciamo male. Se ne facciamo un Paese di differenti, saremo ancora più Paese> attraverso un dià legein, un legarsi separandosi e un disporsi che va oltre, che consente di vedere ciò che semplicemente è dato ma nascosto dal visibile.
<Quando invece ti accorgi che in una città non ci si interroga su quello che manca affinché quel luogo sia veramente se stesso ma su ciò che manca a sé per avere potere su quella città, allora, insomma, è tutta un'altra storia>.
Pubblicato su <Il Borghese> gennaio 2011
Chieti, Libreria De Luca, dicembre 2010, ph Anna Maria Santoro