La guerra: dalla Filosofia alla psicanalisi
Data dell'articolo: aprile 2022
di Anna Maria Santoro
«Πόλεμος, la guerra, è padre di
tutte le cose» scriveva Eraclito, che nel V secolo a.C. inseriva il
conflitto in una visione metafisica di forze contrapposte necessarie alla vita,
dalle quali la realtà ha origine; «Niente
esiste che non abbia il suo contrario»: il caldo il freddo, la vita la
morte, il giorno la notte. Per Eraclito, dunque, Pòlemos non è violenza distruttiva, al contrario di Omero che nell’Iliade
ne aveva offerto una valenza ora luttuosa e triste ora nobile ed eroica.
Successivamente, un giudizio deplorevole lo troviamo nel 387 a. C. nel Menèsseno di Platone e nel pensiero
cristiano secondo cui «Bellare semper
illicitum est».
Alcuni filosofi cristiani, tuttavia, danno alla guerra un valore non
del tutto negativo: nel De Civitate Dei,
databile tra il 413 e il 426, Agostino scrive che «ogni uomo cerca la pace, anche facendo la guerra», mentre nel 1265 Tommaso
d’Aquino, dissertando di sindèresi, ovvero
l’habitus naturale pratico che consente all’uomo di conoscere ciò che si deve
fare e non fare, fissa, nella Summa
theologica, una distinzione tra guerre lecite e illecite: «Perché una guerra sia giusta si chiedono tre
cose: Primo, l‘autorità del principe, per ordine del quale la guerra deve
essere proclamata. Secondo, si richiede una causa giusta. Terzo, si richiede
che l‘intenzione di chi combatte sia retta: che miri a promuovere il bene, e a
evitare il male».
Nel 1509 Erasmo da Rotterdam, nel suo Elogio della Follia, condanna la guerra: «Essa appare tanto crudele, da convenire alle belve più che agli uomini;
tanto pazza, che anche i poeti hanno pensato che fossero le Furie a scatenarla;
così rovinosa, da portare con sé la totale corruzione».
Un secolo più tardi, XVII, la cultura d’Oltremanica vede, in Hobbes, un
sostenitore del carattere naturale della guerra: secondo Hobbes l’uomo tende naturalmente
a perseguire il proprio bene, a discapito di quello di tutti gli altri, ed è pronto
a uccidere, fino al sicuro annientamento del genere umano. Famoso è uno degli
aforismi che contraddistinguono questa condizione: Homo homini lupus. E’ una visione che induce a sancire una legge in grado di regolare le azioni,
che tuttavia porta a conseguenze estreme: trasferire tutti i propri diritti a
un sovrano, Leviatano, a cui sempre e incondizionatamente obbedire. Si tratta
di un potere monarchico illimitato che nel corso del XIX secolo prenderà il
nome di assolutismo.
Una visione tendente alla pace caratterizza il secolo successivo:
l’Illuminismo francese vede Voltaire, Montesquieu e Rousseau considerare la
guerra come un male; «Se i flagelli della
guerra sono inevitabili, almeno non odiamoci, non straziamoci a vicenda nei
tempi di pace» si legge nel Trattato
sulla tolleranza del 1763 di Voltaire. Anche in Germania l’Illuminismo
aspira a una fratellanza universale: «Agisci
in modo da trattare l’umanità come fine e mai come mezzo» scrive Kant nella
Critica della Ragion pratica nel
1788. Non a caso, sulla sua tomba oggi si legge il celebre epitaffio: «Il cielo stellato sopra di me e la legge
morale dentro di me».
Nel 1821, in pieno Romanticismo, Hegel pubblica a Berlino i Lineamenti della Filosofia del Diritto in
cui focalizza la riflessione filosofica sul modo in cui gli uomini regolano i
rapporti tra loro; qui, Hegel considera il ricorso alla guerra come un valore
nel divenire della Storia.
Quarantacinque anni dopo, nel 1866, Marx scrive il primo libro del Capitale in cui la frase «I filosofi hanno interpretato il mondo, ora
si tratta di trasformarlo» appare come un fulmine a ciel sereno: è un
chiaro invito alla praxis, all’azione
rivoluzionaria che, tuttavia, è destinata a scomparire con la realizzazione di
una società comunista senza classi.
La seconda metà del 1800 vede, con Freud, la nascita della psicanalisi e
lo sviluppo di un nuovo dibattito, che riguarda anche il rapporto tra guerre e
inconscio. Così ne scrive Umberto Galimberti: «Dal punto di vista psicanalitico Freud interpreta la guerra come una
proiezione all’esterno della pulsione di morte per poterla aggredire, evitando
così la condizione di incubo e di angoscia connessa al suo insorgere nella
coscienza individuale e collettiva. Da questo punto di vista la guerra non
sarebbe un’esplosione dell’irrazionale, ma un meccanismo di difesa che tenta di
controllare l’angoscia dell’autodistruzione, proiettando la pulsione di morte
all’esterno e razionalizzandola come aggressione al nemico su cui è stata
trasferita». La guerra, dunque, «è
un’organizzazione di sicurezza non già perché permette di difenderci da nemici
reali, ma perché riesce a trovare e al limite ad inventare dei nemici reali da
uccidere».
Interessante è poi la teoria di Adler, per il quale la volontà di
affermare se stessi deriverebbe dalla percezione della propria debolezza.
Per Lacan, secondo cui l’inconscio è strutturato come un linguaggio, la
guerra può essere considerata senza la necessità di ricorrere all’ipotesi del
dualismo pulsionale freudiano.
Infine, Slavoj Žižek, filosofo lacaniano, così scrive nel libro Benvenuti nel deserto del reale nel
2018: «Questa è la ragion d’essere della
psicanalisi: spiegare perché, con tutto il nostro benessere, siamo perseguitati
dall’incubo della catastrofe».
di Anna Maria Santoro
Successivamente, un giudizio deplorevole lo troviamo nel 387 a. C. nel Menèsseno di Platone e nel pensiero cristiano secondo cui «Bellare semper illicitum est».
Quarantacinque anni dopo, nel 1866, Marx scrive il primo libro del Capitale in cui la frase «I filosofi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di trasformarlo» appare come un fulmine a ciel sereno: è un chiaro invito alla praxis, all’azione rivoluzionaria che, tuttavia, è destinata a scomparire con la realizzazione di una società comunista senza classi.