Recensione del 2010 

Salvatore Natoli, IL BUON USO DEL  MONDO, Mondadori, 2010


A colloquio con

Salvatore Natoli

Giugno 2010


a cura di Anna Maria Santoro



"Se non realizziamo la nostra vita nel tempo a noi assegnato, perdiamo il mondo; transitiamo senza averlo mai abitato", "Stultus è colui che lascia che la vita scivoli via" Blumenberg e Foucault ci raccontano del nostro permanere sulla terra; ed è attraverso le voci della Storia, incrociando i pensieri della filosofia greca e le grandi riflessioni dell'Occidente che il disagio esistenziale trova conforto. Con ragionamenti; meditazioni. 


A che cosa possono aspirare gli uomini se non alla felicità? E come raggiungerla? Salvatore Natoli ha dedicato all'εὐδαιμονία (eudaimonìa) molti suoi scritti, indicando strategie e orientamenti attraverso un'analisi tra fenomenologia e morale, esperienze e visioni del mondo: <Non mi sento di dare messaggi perché un filosofo non deve mai partire dall'idea che possa risolvere i problemi degli uomini. Ho cercato di evidenziare i dilemmi, di indicare spunti per riflessioni.

Una delle parole greche per indicare la “felicità” è l'εὐδαιμονία (eudaimonìa), che può significare due cose: δαίμων (dàimon), vuol dire avere un dio favorevole, un colpo di fortuna insomma; ma “dàimon”, se pensiamo a Socrate e Platone, è anche il “demone interiore”> lo spirito guida che si pone a metà strada tra ciò che è divino e ciò che è umano; <quindi la via fondamentale per perseguire la felicità è scavare dentro se stessi, per trovare cosa? La propria vocazione, ciò per cui si è fatti; la giusta relazione con gli altri; la capacità di stabilire rapporti fecondi col mondo, e quando dico rapporti fecondi intendo dire generare il bene anche là dove c'è il male, ecco perché il dolore non è l'opposto della felicità se il soggetto riesce a trarre il bene anche dalla sofferenza. L'opposto della felicità è, invece, la noia; e questo lavoro interiore gli antichi lo chiamavano “virtù”>. Coltivare il proprio dàimon vuol dire, dunque, valorizzare al massimo la propria potenza: <ci emancipiamo dai vincoli non ignorandoli, e meno che mai negandoli, ma elaborandoli>. 

La parola “virtù”, tuttavia, non desta particolare entusiasmo, perché la si confonde con l'osservanza delle norme. <E', invece, conoscenza delle proprie dinamiche emotive; è sottomettere tutte le affezioni inferiori al desiderio della felicità generale dell'umanità>. In greco è l'ἀρετή (areté). La sua radice è ar-, da cui deriva l'ars latino <l'arte, appunto, come capacità di creare e, in senso pratico, di trovare una via d'uscita nelle difficoltà>. Stando all'etimologia del termine il virtuoso è colui che sa darsi regole e corrispondervi, non sentendosi obbligato a norme che lo costringono senza convincerlo.

<Ma se la virtù altro non è che l'organizzazione della propria potenza, risulta evidente, o comunque persuasivo, che il ripiegamento su di sé è una precondizione per attingerla>. 

Nell'uomo il ripiegamento su di sé equivale al “raccoglimento”: <Un termine il cui impiego, talvolta pretestuoso, ne ha nascosto il significato originario, quello della “prosoché” degli stoici: l'attenzione a sé, la vigilanza in ogni istante>: Una coscienza di sé sempre desta; non un allontanarsi dal mondo, <non un rinchiudersi in non si sa quali profondità dell'anima, ma piuttosto un portare alla luce, una comprensione di sé> per raccogliere le forze, evitando che quelle più potenti ci schiaccino facendoci confondere l'agitarsi con l'agire. 

La tradizione aristotelica aveva posto una distinzione tra l'“agire”, che è il dare un senso alle proprie azioni, e il “fare”, ossia l'esecuzione di un compito. <Il fare tecnico esige determinate e peculiari abilità, ma la capacità di scegliere ciò che è giusto e ciò che è meglio non è riducibile a un'abilità tecnica.

L'uomo, per quanto cresca in potenza, non sarà mai emancipato dalla propria finitezza. Le tecniche che possiede lo illudono all'onnipotenza facendo dimenticare che, come siamo casualmente apparsi, possiamo in ogni momento tramontare>.

Nel suo ultimo libro, “Il buon uso del mondo”, Natoli analizza il rapporto tra le varie forme del fare, ossia il lavoro, il consumo, il progresso e il rischio, e quello che dovrebbe essere il vero obiettivo di ciascuno: “un buon uso del mondo”. 

Viviamo in una società che si alimenta di eccitazione: <avanza la perversione, pubblicamente denunciata ma altrettanto pubblicamente esibita. I network e internet invitano, senza alcuna reticenza, alla pratica dell'estremo>. E allora è guadagnando il potere su di sé che ci sottrae al dominio. Ma ciò comporta una presa di distanza. Come scrive Spinoza nell'“Etica”: <et quo unius corporis actiones magis ad ipso solo pendent, et quo minus alia corpora cum eodem in agendo concurrunt, eo ejus mens aptior est ad distincte intelligendum, quanto più le azioni di un corpo dipendono da lui solo, e quanto meno altri concorrono con lui nell'azione, tanto più la sua mente è adatta a conoscere distintamente>. Bisogna mettere in atto un'attenta pratica di distinzione o, <come si amava dire nei secoli cristiani, di “discernimento”>. Sicché gli idoli del presente non si abbattono opponendosi a essi sul medesimo terreno; al contrario, sottraendosi a essi: <Ciò non comporta nessuna ribellione ma esige una “metànoia”, dal greco μετανοεῖν, nel senso etimologico del termine: un cambiare mente, un guardare le cose sotto un altro aspetto, evitando di confondere l'ovvio con il buono>. Lo sguardo della mente, il distanziamento, è il modo migliore di trattare ciò che s'incontra nel mondo come qualcosa che è solo da afferrare. E questo esige applicazione e perfezionamento dei sensi. Ma non solo: <La sensibilità si affina se è attenta al mondo>; attraverso la modulazione della sensibilità il mondo diviene per noi fruibile. In quest'ottica bisogna essere “obbedienti”: <Da “ob-audio”, “ascoltare”, ascoltare la voce dell'altro e, possibilmente, prenderla sul serio>. Il sapere della vita coincide con la capacità di saper cogliere, di volta in volta, le ragioni del bene. <Come Nietzsche diceva dei Greci: nulla ci è dovuto, tutto va conquistato. Sotto quest'aspetto, la felicità è il fine ultimo dell'uomo perché coincide con la realizzazione della vita in ogni suo momento. E' più che mai vero che la felicità la si guadagna. Non è facile ma è possibile>.

E' in quest'ottica che le argomentazioni sulla felicità sono ascrivibili anche alla politica, intesa come <pratica che consente agli uomini di cooperare in vista del bene comune>. La ragione della spietatezza, che oramai non si percepisce più come tale, risiede nella diffusa tendenza all'appropriazione <e perciò anche all'accaparramento del potere che, da sempre, rappresenta una tentazione: il “cupio dominandi” è una dimensione antropologica. Chi possiede il potere, più che considerarlo un servizio, lo ritiene un privilegio. Per questo si tende a conquistarlo e, una volta acquisito, a non perderlo>. Compito della politica, invece, è quello di orientare; far sì che gli individui possano perseguire le loro preferenze senza ostacolarsi a vicenda.

Le campagne elettorali vengono spesso affidate ai pubblicitari: <Per vincere bisogna agitare le passioni e imbastire il grande mercato dei sogni>. Ma bastano le sole elezioni a produrre la democrazia? 

 Al riguardo, il discorso di Natoli si rifà molto alle posizioni di Schumpeter: <Schumpeter dice che le elezioni hanno la funzione di legittimare il potere ma non hanno la possibilità di selezionare un ceto dirigente adeguato; non lo possono fare le elezioni ma lo possono fare le organizzazioni, le associazioni, le imprese: lì c'è una possibilità più diretta di controllare il proprio rappresentante>. Nella nostra società la lotta tra gli egoismi, l'offerta provocatoria di modelli sociali desiderati da molti ma concessi a pochi, mette in circolo un sentimento diffuso di aggressività: <Contro la violenza e la prepotenza bisogna far sbocciare la generosità>. "Soli homines liberi erga invicem gratissimi sunt".


Pubblicato sul mensile <Il Borghese>, luglio 2010


La foto che ritrae Salvatore Natoli è stata scattata successivamente all'intervista, nel 2016 a Modena, al Festival della Filosofia, ph Anna Maria Santoro

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