Steve McCurry

Macro Testaccio - La Pelanda, Roma 

dal 3 dicembre 2011 al 29 aprile 2012 

a cura di Fabrio Novembre


Articolo di Anna Maria Santoro



 16 Dicembre 2011. Un pomeriggio piovoso, raro a Roma.




A sud-ovest del centro cittadino, costeggiando il lato destro della Piramide di Caio Cestio, procedendo in via Galvani con i platani che scorrono lungo i fianchi, nella piazza che a si allunga a gomito, verso via Franklin, tra il verde delle foglie appare, inatteso, l'ex mattatoio.


Il volume rettangolare dell'ingresso, con la facciata a bugnato interrotta da tre arcate, reca la scritta “MACRO TESTACCIO”, e ancora, “Steve McCurry, mostra fotografica curata da Fabio Novembre”.





L'edificio ospitava, un tempo, gli antichi ambienti di un macello, le stalle, gli stabilimenti per la lavorazione del sangue. Era stato progettato da Gioacchino Ersoch nel 1888.

Quando nel 1975 viene dismesso, quei padiglioni industriali si fanno luoghi per l'arte; poco più tardi aule per la Facoltà di Architettura fino all'unione ideale con il MACRO nel 2002, il Museo che accoglieva gli antichi stabilimenti della birreria Peroni di Via Nizza.





Superata la biglietteria, i passi si fanno incerti sui sampietrini scivolosi. Sulla navata esterna con la ciminiera troncoconica, un tempo usata per la pelanda dei suini e i serbatoi dell'acqua, campeggia l'enorme fotografia di Steve McCurry a Sharbat Gula, l'adolescente afgana che dalla copertina del National Geographic di giugno del 1985 fissava il mondo intero con i suoi grandi occhi. Verdi. Sgranati. Aveva 13 anni. Quell'immagine, la più conosciuta nella storia della fotografia degli ultimi trent'anni, svetta, ora, oltrepassando idealmente i confini degli elementi architettonici in ferro della volta e il tetto a doppia falda; timida verso il cielo, con l'ansietà dello sguardo profugo verso la terra.





Entrando nell'oscurità del corridoio, spiccano cavità orbitali su volti colorati; sono le forme di design delle sedute di Fabio Novembre; in un abbraccio accolgono quanti, tra i visitatori, si soffermano sui video di presentazione.


Dal documentario di David Royle del 2002: <La vicenda ebbe inizio 17 anni fa ...> poi la voce di McCurry: <Dovevo realizzare un servizio alla frontiera tra l'Afghanistan e il Pakistan>. Era il 1984. <Un giorno mi trovai in un campo profughi dove c'era questa ragazza ...> Di etnia Pashtun, aveva perso i suoi cari in un bombardamento sovietico; era fuggita con la nonna e i fratelli. A piedi, faceva molto freddo, nascondendosi tra rade siepi aveva oltrepassato le montagne fino al campo di Nasi Bagh.

E' là che McCurry le scatta la famosa fotografia. Ed è là che torna a cercarla. Più volte, fino a quando, nel 2002, si fa accompagnare da studiosi dell'iride ed esperti della scientifica che indagano sui possibili cambiamenti di quel volto; al computer cercano di invecchiarla. Quel campo profughi lo stanno per demolire; il tempo sembra essersi fermato, <gli autobus colorati circolano ancora>.

Quando la trovano a Tora Bora, una delle roccaforti di Bin Laden dove si combatte ancora, e il marito Rahamat Gula acconsente a farla incontrare con McCurry, Sharbat non sa di essere famosa in tutto il mondo, non ha mai visto quel ritratto e quando le viene mostrato, ricorda tutto su quella foto scattata a scuola. Accetta di farsi fotografare per la seconda volta. Ma il suo sguardo, ora, è mutato e con la mano che porta il velo sul volto: <con la volontà di Dio riuscirò a sopravvivere. Nessuno può dire>.


Da un altro video: <Nel 2009 la Kodak annuncia la fine della produzione Kodachrome. L'evento sembra passare inosservato ma c'è qualcuno che chiede l'ultimo rullino ...>.

Poi, l'affievolirsi di quelle voci, <il bello della fotografia è camminare, sognare, scoprire ...>, cede il passo alla mostra. Come un villaggio nomade.


Capanne esili dove le foto diventano suoi abitanti; realtà tra male e bene. Dove la perfezione non è necessaria.

   Lo sguardo di Sharbat tredicenne s'incrocia nella terza capanna, al n 27 con la didascalia “Peshawar, Pskistan, 1984”. Più in basso, a sinistra la foto numero 28 “Shigatse, Tibet, 2001”; a destra la 29 “Herat, Afghanistan, 1992”.

E di nuovo quello sguardo, della "Monnalisa afgana" rifotografata dopo diciassette anni, indurito dal tempo ma ancora selvaggio, si ritrova nella settima capanna al numero 56 “Peshawar, Pakistan, 2002”, tra la 55 “Tagong, Tibet, 1999” e la 57 “Tahona, Niger, 1986”.


Duecento finestre sul mondo. La Storia dell'umanità. La nascita. La morte. Senza sequenze di tempo né di spazio. Un sorriso involontario; un gomitolo di case in mezzo ai campi. E processioni. E acque; l'acqua del Gange; l'acqua a Venezia coi riflessi sui canali che paiono murales e il gesto, del gondoliere veneto, che pare ripetuto sul lago Inle della Birmania; e le sponde del Jhelum. Poi la distruzione; delle torri gemelle, “New York City USA, 2001”; in Kuwait, “Al Almadi Oil Fields, Kuwait, 1991”; e luoghi degradati, lontani ma quasi sovrapponibili. I cani. La coca cola di un monaco tibetano. Un ristorante polveroso sulla strada. Menomazioni delle guerre e malattie inconsapevolmente vissute; e un uomo verde in mezzo a teste rosse, “Rajasthan, India, 1996”. E Cuba. Lourdes. E piccioni a Kandahar, “Kandahar, 1992”, del tutto simili alla moltitudine degli uomini di “Mazar i Sharif Afghanistan, 1991”.

E' questo il viaggio con Steve McCurry al Macro Testaccio.

E come i dipinti dei grandi Maestri possono travolgere le emozioni, così, <quando le immagini ti mandano fuori di testa; e rimangono dentro; e ti cambiano a qualche livello> è allora che, quelle, sono fotografie di successo.


Pubblicato sul mensile Il Borghese - Febbraio 2012


Roma, gennaio/febbraio 2012, Macro Testaccio, La Pelanda, ph Anna Maria Santoro


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